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Sai cos’è il Greenwashing? Smascheralo in 5 mosse

di Zummy Team

Non tutti sanno di cosa si tratta, ma il Greenwashing ci bombarda ogni giorno attraverso una comunicazione sleale da parte di certe aziende, che puntano a sedurre i consumatori offrendo di sé un’immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo etico e ambientale. Sai come fanno? Se le conosci, le eviti. E per smascherarle, fai così

Greenwashing, le origini

Il termine stesso, greenwashing, sembra alludere a qualcosa di verde, di pulito, a qualcosa di bello per l’ambiente. Lo leggi e ti sembra il nome di un lavaggio delicato fatto con un detergente ecologico rispettoso. Non è così. Lo coniò nel 1986 l’ambientalista americano Jay Westerveld, riferendosi a quelle catene alberghiere che chiedevano ai loro ospiti di utilizzare meno asciugamani, adducendo a motivazioni legate all’impatto sul lavaggio della biancheria. In realtà, a suo dire, queste esortazioni nascondevano esclusivamente motivi economici.

Cosa significa

Greenwashing è un neologismo che nasce dalla combinazione di green e whitewashing ovvero “verde” e “imbiancare”. Il verde è il colore che rimanda da sempre al mondo pulito e ambientalista, mentre imbiancare va inteso in senso figurato, come coprire qualcosa, dare una mano di bianco, una ripulita, dissimulare… Quindi, greenwashing sta a indicare strategie di marketing sleali messe in atto da alcune aziende per “tingersi di verde”.

Perché si parla di comunicazione ingannevole? Semplice: il loro intento non è certo quello di attuare una catena di produzione virtuosa, ma di diffondere un’immagine falsamente positiva delle proprie attività per ottenere ai nostri occhi di consumatori un posizionamento basato (impropriamente) sulla sostenibilità ambientale ed etica. L’attenzione di chi guarda, l’opinione pubblica, viene distolta dal complesso delle dinamiche aziendali (spesso tutt’altro che riconducibili a condotte rispettose) per focalizzarsi su azioni fuorvianti ma anche su scritte o slogan ecologici, sul colore verde dominante nelle grafiche proposte, su immagini di natura incontaminata. Insomma, ci dicono di guardare il dito e non la luna.

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Come riconoscerlo

Potremmo anche definirlo lo “sbandieramento” della sostenibilità. Di solito un’azienda sostenibile è attenta a tutti i passaggi della sua produzione, dal filato (e da come viene ottenuto) al confezionamento, alla forza lavoro fino a packaging, imballi e spedizioni. Non ci si improvvisa: si investono grandi sforzi e tanto denaro in modo costante. Insomma, se dici di utilizzare il cotone più bio del mondo e poi fai cucire le tue magliette a una forza lavoro che vive senza diritti e in condizioni di miseria, non ti basta una mano di bianco per dimostrare al mondo che sei buono

La prima regola, per te che devi scegliere se cadere nel tranello o sbugiardare chi te lo tende, girando al largo dai suoi prodotti, è sempre quella di informarsi. Di andare oltre il dito. Di guardare più in là. Cerca info utili, chiedi riscontri precisi, documentati, leggi il cartellino, vai a caccia di certificazioni affidabili e poi rifletti: se quel paio di jeans, quel vestito, quella T-shirt hanno un prezzo molto basso, fai che dentro di te scatti un campanellino d’allarme.

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Le 5 regole per smascherare il greenwashing

Sappi che non è facile riconoscere una comunicazione sleale di questo stipo (che, tra l’altro, non viene attuata solo dal settore moda ma da organizzazioni di ogni genere, istituzioni politiche comprese) e che spesso non è facile scoprire la verità, soprattutto dietro ad aziende di grandi dimensioni. Ma tu non ti scoraggiare. Con un po’ di allenamento e prestando attenzione a qualche dettaglio, è possibile quantomeno farsi assalire dai dubbi.

1. Leggi etichette e cartellini

E poi chiediti: “Quello che l’azienda mi sta comunicando, ha qualche impatto sul prodotto finito? Per esempio: se questa realtà mi comunica che ha contribuito ad aprire scuole in Africa ma poi produce in Bangladesh, qualcosa non torna…

2. Occhio al prezzo

Se il capo è in cotone bio o in altro materiale ecosostenibile e rispettoso al 100% (vedi il Lyocell o il cotone organico amati da noi di ZUMMY, per esempio) ma il prezzo è esageratamente basso, è evidente che i costi vengono tagliati altrove (sottopagando la manodopera, forse?).

3. Diffida di azioni sporadiche

Soprattutto se sono iniziative lanciate a inizio stagione: non fanno di quel brand una realtà sostenibile. Servono impegni concreti, a lungo termine e a 360 gradi. Per esempio: una capsule collection realizzata con bottiglie di plastica riciclata è buona cosa, siamo d’accordo. Ma se nasce da un’azienda che per tutto il resto della produzione utilizza poliestere non riciclato e per di più mischiato con il cotone (quindi, una volta terminato il suo ciclo di vita, non riciclabile), allora questo brand è lontano anni luce dall’essere sostenibile, stanne certa.

4. Vai a caccia di certificazioni

Si fa presto a dire che un prodotto è green, sostenibile, a impatto zero. Le aziende devono dimostrare, dati alla mano, che i loro articoli rispondono a precisi requisiti ambientali (e, meglio ancora, anche etici). Gots e Oeko Tek sono le certificazioni più famose quando si tratta di garantire al consumatore che i prodotti tessili bio sono ottenuti nel rispetto di stringenti criteri ambientali e sociali applicati a tutti i livelli della produzione. E che i prodotti tessili non contengono né rilasciano sostanze dannose per la salute umana. Non essere timida, non aver paura di chiedere informazioni a chi vende il capo che ti piace o all’azienda che lo produce. Più ti informi, più scavi sotto la superficie, più gratti l’intonaco, più le aziende saranno spinte ad essere maggiormente rigorose e trasparenti nella comunicazione e ad affidarsi a terzi che certifichino in modo scientifico le loro affermazioni.

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5. Compra di meno

Chiediti se davvero quello che stai acquistando è indispensabile. Se è di buona qualità, se durerà nel tempo o se è solo il capriccio di una stagione. Se tutti comprassimo meno in modo compulsivo ma abituandoci a ragionare con lungimiranza, se tutti avessimo più cura dei nostri capi, pian piano le aziende imparerebbero a puntare sulla qualità e non sulla quantità. E tutto il pianeta, noi compresi, staremmo meglio.

Il greenwashing non conviene a nessuno

La domanda di sostenibilità nel settore moda è sempre più alta. Cerchiamo prodotti con un certo grado di qualità ambientale, che durino, che snobbino imballaggi sovradimensionati e siamo anche disposti a pagare di più per questo. Ma il nostro crescente amore per una natura bistrattata per secoli e la nostra maggiore sensibilità verso problematiche legate a forze lavoro sfruttate, non legittima pratiche scorrette.

Di fronte a un caso sospetto di greenwashing è possibile rivolgersi all’AGCM (Autorità garante per la concorrenza del mercato) o all’IAP (Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria), organi che hanno la facoltà di aprire un’istruttoria nei confronti dell’azienda, che dovrà dimostrare di avere le carte in regola. Se non le ha, verrà sanzionata e obbligata a cambiare il tenore della sua comunicazione. Il danno di immagine? Inevitabile! Grazie a consumatori come te, sempre più attenti ed esigenti, la pratica scorretta prima o poi viene a galla. La reputazione, invece, sprofonda in un istante.  

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